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Il parere di Roger Ebert su
The Phantom Menace: *** 1/2


a cura di Davide Canavero


     Il critico del Chicago Sun-Times Roger Ebert ha alle spalle una lunga esperienza, che in occasione dell'uscita del controverso Episode I gli ha permesso di esprimere idee chiare e intelligenti, lontane da entusiasmi eccessivi e soprattutto dalla critica cinica e selvaggia, che in quei mesi sembrava lo sport preferito da molti opinionisti.
     Ebert, dall'alto dei suoi anni, dà una bella lezione ai critici più giovani, esperti soprattutto nell'arte del cinismo: com'è facile abituarsi alle meraviglie!

     "If it were the first "Star Wars" movie, "The Phantom Menace" would be hailed as a visionary breakthrough. But this is the fourth movie of the famous series, and we think we know the territory; many of the early reviews have been blase, paying lip service to the visuals and wondering why the characters aren't better developed. How quickly do we grow accustomed to wonders. I am reminded of the Isaac Asimov story "Nightfall," about the planet where the stars were visible only once in a thousand years. So awesome was the sight that it drove men mad. We who can see the stars every night glance up casually at the cosmos and then quickly down again, searching for a Dairy Queen".

     Lungi dall'essere un semplice blockbuster senz'anima, Episode I "[...] is an astonishing achievement in imaginative filmmaking. If some of the characters are less than compelling, perhaps that's inevitable: this is the first story in the chronology and has to set up characters who (we already know) will become more interesting with the passage of time. [...]". Insomma, una difesa degna di un fan!
     Ma Ebert frena subito: per lui l'anima di Star Wars —giudizio estendibile a tutti i film— sta nell'immagine più che nella parola. Lucas è un grande creatore di visioni: "[...] the importance of the movies comes from their energy, their sense of fun, their colorful inventions and their state-of-the-art special effects. I do not attend with the hope of gaining insights into human behavior. Unlike many movies, these are made to be looked at more than listened to, and George Lucas and his collaborators have filled "The Phantom Menace" with wonderful visuals. [...]". Il critico americano non è certo l'unico a pensare che Lucas sappia esprimersi meglio con l'immagine che con la parola.
     Dopo aver passato in rassegna meticolosamente tutti i luoghi fantastici che scorrono davanti agli occhi dello spettatore, Ebert mostra di considerare la trama del film fin troppo semplice: "Set against awesome backdrops, the characters in "The Phantom Menace" inhabit a plot that is little more complex than the stories I grew up on in science-fiction magazines. The whole series sometimes feel like a cover from Thrilling Wonder Stories, come to life". Ha torto solo a metà: la trama di Ep1 sarebbe anche complessa se Lucas avesse dato maggiore spazio alle trame politiche di Palpatine / Sidious, spiegando meglio l'intera faccenda dell'embargo, che gran parte del pubblico non ha minimamente capito. Sarebbero bastate un paio di battute di dialogo in più, nei punti giusti. D'altra parte, se si fosse ecceduto in quella direzione, non si sarebbe più potuto parlare di una "minaccia fantasma", una trama nascosta che si sviluppa in secondo piano; Lucas con ogni probabilità voleva il film così com'è, una commedia che contiene in filigrana la tragedia futura. È difficile giudicare fino a che punto abbia sbagliato le dosi della sua ricetta.
     A testimoniare che l'atteggiamento aperto del critico non gli impedisce di vedere i difetti del film ecco la stoccata ironica sulla qualità dei dialoghi: "The dialogue is pretty flat and straightforward, although seasoned with a little quasi-classical formality, as if the characters had read but not retained "Julius Caesar." I wish the "Star Wars" characters spoke with more elegance and wit (as Gore Vidal's Greeks and Romans do), but dialogue isn't the point, anyway: These movies are about new things to look at". Il leitmotiv di Ebert ritorna: SW è cibo per gli occhi, ben poco per la mente. Personalmente starei attento a ridurre così tanto la portata della parola in questa saga; dopo tutto è grazie alla parola che il pubblico ne ha decretato il successo: se è amata dopo oltre vent'anni non è solo per gli effetti speciali.

     Secondo Ebert —parere piuttosto discutibile— Lucas sembra aver ridotto la scala degli eventi: "The plot details (of embargoes and blockades) tend to diminish the size of the movie's universe--to shrink it to the scale of a 19th century trade dispute. The stars themselves are little more than pinpoints on a black curtain, and "Star Wars" has not drawn inspiration from the color photographs being captured by the Hubble Telescope. The series is essentially human mythology, set in space, but not occupying it. If Stanley Kubrick gave us man humbled by the universe, Lucas gives us the universe domesticated by man". È agevole rovesciare le osservazioni di Ebert che, come quelle di tutti i critici, benevoli o ostili, sono opinioni costruite sulla scorta di conoscenze approssimative e tempi di riflessione ristretti o nulli. Se Lucas avesse iniziato in modo pomposamente epico sarebbe stato ugualmente bersagliato da critiche: la storia deve pur iniziare in qualche punto, e questa inizia con eventi abbastanza marginali dai quali si scatenerà una crisi galattica. Il problema è che nessuno riesce a contestualizzare le parti dell'opera e, quando esprime giudizi, lo fa sulla base di dati parziali; se Ebert desse uno sguardo complessivo alle linee essenziali —già note— del plot dei Prequel capirebbe che Lucas ci mostra il lento sgretolarsi della Repubblica.
     Niente più che un sorriso suscita l'osservazione sulle stelle che appaiono ad Ebert un po' troppo "normali" e che non si avvalgono del potenziale di sense of wonder che le recenti osservazioni spaziali potrebbero offrire: Lucas, secondo lui, avrebbe dovuto stupirci con qualche licenza poetica visiva che mostrasse uno spazio più... colorato, questa è la parola esatta. Voglio solo ricordare che un cosmo trapuntato di lucine colorate era lo sfondo costante di Scontri spaziali oltre la terza dimensione... No grazie, meglio lo spazio come si vede a occhio nudo. Provare per credere. Signori critici, ricordate che il vostro potere della parola senza l'uso del cervello è vano.
     Verissima è l'osservazione secondo la quale in SW l'immensità del cosmo non si avverte, non c'è lo smarrimento dinanzi all'infinito: lo spazio è addomesticato, è cosa di tutti i giorni, e andare all'altro capo della galassia è come fare una gita fuori porta. SW non è sci-fi, è mito che usa lo spazio come scenario, non come tema. Ecco una delle osservazioni più pertinenti, che però sembra avanzata in forma di velata critica, per dire che il solito Kubrick colpisce meglio nel segno: ma è un equivoco, perché a Lucas non interessava affatto mostrare lo smarrimento dell'uomo dinanzi al cosmo. L'illusione di potere dei critici li porta a pensare sempre che la prima idea che viene loro in mente sia la Verità; e così, per pigrizia, essi non raggiungono mai una vera comprensione dell'opera.

     "Yet within the rules he has established, Lucas tells a good story" è la sentenza cardine del critico, che introduce il riassunto della trama. Lucas si è autolimitato, non ha fatto ricorso a un sense of wonder pari a quello messo in scena nel 1977 —questo sembra dire Ebert— eppure è riuscito ugualmente a dar vita alla fantasia cinematografica più generosa degli ultimi anni.
     La corsa dei pod è la scena preferita di Ebert, che stabilisce un paragone lecito, ma in maniera goffa: "The race is one of the film's high points, as the entrants zoom between high cliff walls in a refinement of a similar race through metal canyons on a spaceship in Star Wars". Peccato che in A New Hope non si trattasse affatto di una gara e che la "nave spaziale" fosse la famosa Morte Nera.

     Interessante l'osservazione sul perché della fiducia di Qui-Gon in Anakin: "perhaps because, like John the Baptist, he instinctively recognizes the one whose way he is destined to prepare".
     Ingiusto il trattamento dell'addio di Anakin a sua madre, che il critico distratto liquida così: "Their mutual resignation to the parting seems awfully restrained. I expected a tearful scene of parting between mother and child, but the best we get is when Anakin asks if his mother can come along, and she replies, "Son, my place is here." As a slave?". Certo, Shmi non vive poi così male, il suo mondo è Mos Espa e alla sua età non è facile cambiare vita; sono molti gli schiavi che si rassegnano alla loro condizione, non c'è nulla di incredibile. Per quanto riguarda l'addio Ebert farebbe meglio a rivedersi quella parte perché dimentica la scena finale. Shmi, inoltre, non è il tipo di persona che piange facilmente; e una scena lacrimevole non l'avrebbe voluta nessuno.

     "[...] I was happy to drink in the sights on the screen, in the same spirit that I might enjoy "Metropolis," "Forbidden Planet," "2001: A Space Odyssey," "Dark City" or "The Matrix." The difference is that Lucas' visuals are more fanciful and his film's energy level is more cheerful; he doesn't share the prevailing view that the future is a dark and lonely place". Ebert non riesce a sfuggire al solito luogo comune —figlio della pigrizia e della disattenzione programmatica dei critici— che continua a classificare SW come fantascienza. Non c'è nessun futuro di mezzo, possibile che dopo quattro film che iniziano con "Tanto tempo fa..." non lo si sia ancora capito? È tanto difficile accorgersene?
     "What he does have, in abundance, is exhilaration. There is a sense of discovery in scene after scene of "The Phantom Menace," as he tries out new effects and ideas, and seamlessly integrates real characters and digital ones, real landscapes and imaginary places. We are standing at the threshold of a new age of epic cinema, I think, in which digital techniques mean that budgets will no longer limit the scope of scenes; filmmakers will be able to show us just about anything they can imagine. As surely as Anakin Skywalker points the way into the future of "Star Wars", so does "The Phantom Menace" raise the curtain on this new freedom for filmmakers. And it's a lot of fun.".
     Sebbene non più giovane, Ebert non può davvero definirsi un cinico o un guastafeste. Non appartiene alla nutrita schiera dei critici ottusi nemici dello spettacolo e della visualità dei film; e della giocosità della saga. Anzi, apprezza in toto lo spirito di Star Wars.
     "As for the bad rap about the characters — hey, I've seen space operas that put their emphasis on human personalities and relationships. They're called "Star Trek" movies. Give me transparent underwater cities and vast hollow senatorial spheres any day". Non ringrazieremo mai abbastanza Ebert per questa presa di posizione luminosa a favore della grandiosità epico-narrativa di Star Wars, in contrapposizione alla lambiccata psico-noia trekkista che si nutre di chiacchiere tecno-sociologiche. SW è favola, SW è poesia. Questo almeno Ebert l'ha capito alla perfezione.

     La recensione completa appare sul Chicago Sun-Times del 17 maggio 1999






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