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Blade Runner, l'opera replicante

gli androidi (replicanti) sognano pecore elettriche? (…o unicorni?)

un viaggio in una metropoli fatta di pioggia e di luce, alla ricerca di eterne risposte,
braccati dalle nostre angosce incarnate e consapevoli di essere
gli artefici del nostro destino (forse)…


di Davide Canavero


     Se nel 1977 non fosse uscito Star Wars, Ridley Scott non avrebbe mai creato Alien e Blade Runner. In un certo senso dobbiamo dire grazie a Lucas per aver fatto nascere in Scott l'interesse, prima inesistente, per il fantastico, come rivelato dal regista inglese in un'intervista di qualche anno fa.
     Ma non vogliamo parlare dei parallelismi tra Star Wars e Blade Runner, pressoché inesistenti, anche se un filo rosso che li lega esiste, remoto. E non vogliamo parlare neppure soltanto del capolavoro di Scott, ma di Blade Runner in senso lato: il romanzo, l'indimenticabile film e persino l'avventura interattiva per computer. Ma anche di Blade Runner padre del cyberpunk, manifesto della postmodernità, ricapitolazione citazionista del cinema (qui sì vicino a Star Wars), metafora del cinema e film replicante di se stesso, opera eternamente incompiuta.
     Un film che per la sua atmosfera non potrebbe essere più diverso dall'opera di Lucas, ma che merita altrettanto lo statuto di capolavoro. Se all'approfondimento di Star Wars abbiamo dedicato questa ricca biblioteca di studi, almeno un articolo all'analisi di Blade Runner ci sentiamo in dovere di dedicarlo.

     Quello che segue è il compendio di alcune riflessioni critiche di Marcello Walter Bruno amalgamate in maniera indissolubile con considerazioni personali. I motivi di questo saccheggio di idee —opportunamente metabolizzate e arricchite da me— saranno chiari più avanti: la proprietà delle idee sfuma come pure l'identità di qualsiasi autore; questa è una delle verità "postmoderne" che ci insegna il Blade Runner di Ridley Scott.

     Blade Runner è uno dei film più raffinati della storia del cinema. Il Director's Cut, uscito dieci anni dopo l'originale, toglie qualcosa alla versione classica, ma resta stupendo. Dobbiamo dare per scontata la conoscenza del film. Del resto, c'è forse qualcuno che non l'abbia visto?
     Vorrei spendere invece qualche parola sul romanzo da cui il film è tratto e sul suo autore, perché non pochi lettori, figli del cyberpunk che pure conoscono bene la pellicola, forse non hanno neppure sentito parlare della sua controparte letteraria. Poniamo rimedio a questa grave lacuna.
     Philip Kindred Dick (1928 - 1982), è stato riscoperto dalla critica e dal pubblico dopo una fase di oblio e quindi riconosciuto come uno dei grandi della fantascienza. Le sue opere più note sono La svastica sul sole, I simulacri, Le tre stimmate di Palmer Eldritch, il racconto all'origine di Atto di Forza, Ubik, Un oscuro scrutare: il tema è spesso l'incerto confine tra realtà e finzione. Dick può essere considerato nientemeno che il padre del cyberpunk.
     Il romanzo che ispirò Blade Runner si intitolava Do androids dream of electric sheep? (Gli androidi sognano pecore elettriche?) ed uscì nel 1968: la storia era ambientata nel 1992, proprio quando uscì il Director's cut (sarà un caso?). Nel 1982 moriva Dick e intanto Scott realizzava il film originale… C'è il rischio di perdersi in questo dedalo di cabale numeriche e curiose coincidenze: ma d'altra parte i percorsi tortuosi e labirintici, simboli della complessità e inconoscibilità della realtà, sono cari a Dick.
     Il libro è profondamente diverso dal film e per apprezzare l'arte sia di Dick nella pagina scritta sia di Scott dietro la cinepresa bisogna aver letto anche il romanzo, edito in Italia dall'Editrice Nord col titolo di Cacciatore di Androidi. Le differenze non consistono solo nei nomi (Rosen Association era l'originale di Tyrell Corporation, ed era situata a Seattle; J.R. Isidore era l'originale di J.F.Sebastian; la storia era ambientata a San Francisco e non a Los Angeles, e non a caso come si vedrà, ecc.) ma ad esempio nel "mercerismo", una religione veicolata da una sorta di realtà virtuale ante litteram (siamo nel '68!): la gente spreca la propria vita attaccata alle "scatole dell'empatia" —incontrando in confuse visioni il profeta messianico Wilbur Mercer— o ad apparecchi Penfield per la regolazione dell'umore psicologico; e poi c'è il kipple, non presente nel film: rifiuti tossici che sembra si moltiplichino come esseri viventi, riempiendo a poco a poco gli enormi palazzi abbandonati e divorando persone e cose; poi la fissazione per gli animali autentici, implicita nel film ma ben presente nell'avventura interattiva per computer: possedere un animale è considerato il maggiore status symbol; la Grande Guerra, l'emigrazione verso lo spazio, lo svuotamento delle metropoli, la morte definitiva della natura; e poi Phil Resch, l'alter ego di Deckard, assente anch'esso nel film, come sua moglie Iran e la sua amata pecora, che in realtà è artificiale; e altro ancora.
     Le differenze più profonde, però, stanno nell'impostazione generale, nei temi, nella visione globale e nei simboli, che ora sviscereremo.

     Gli androidi di Dick sono mediocri e malvagi come gli uomini che li hanno creati a loro immagine: la glorificazione (o "canonizzazione") finale di Roy al termine del film di Scott era impensabile nel libro di Dick. Non a caso uno slittamento linguistico viene operato sul nome: da Roy Baty a Roy Batty con due t, cioè da "Re Pipistrello" (= androidi malvagi) a "Re Folle" (= replicanti disperati e umanissimi: si pensi al bizzarro comportamento di Roy, prossimo a morire, nel duello finale con Deckard, al gioco del gatto col topo che porta avanti prima di salvare il suo nemico; e l'istrionismo iperrealistico di Rutger Hauer è perfetto per rappresentarlo).
     I replicanti di Scott sono quindi angeli caduti degni di pietà, persino commoventi nel loro desiderio di ottenere più vita; un motivo, questo, incompatibile col clima del romanzo. Gli spietati androidi di Dick sono mossi da un desiderio feroce di venire a cancellare quel poco di sentimento ed "empatia" presente nel mondo umano, perché loro non lo possono provare. Ecco allora la furia omicida nei confronti degli animali (presente piuttosto nel gioco su computer, con l'assalto da Runciter — e questo nome è a sua volta una citazione, da Ubik, il capolavoro di Dick stesso), l'odio verso la vita, perché quella che conducono loro è falsa, artefatta. Scott innalzerà invece Roy (ora Batty e non più Baty, cioè non più soltanto malvagio) e gli farà amare la vita nel momento della morte, la vita di chiunque, la vita di Deckard.
     Ciò che in Dick è presente è il disperato bisogno d'amore di Rick Deckard, emblema di un mondo agonizzante: lo cerca in sua moglie, nella pecora ma lo trova in Rachael, un'androide. Il protagonista scoprirà di provare affetto verso gli androidi, un motivo ripreso da Scott, che fa provare al Deckard di Harrison Ford uno strano, inedito sentimento per le replicanti Zhora e Rachael. Ma se il rapporto tra Rick e Rachael nel film è, per così dire, romantico come romantica e luminosa è la conclusione (montaggio tradizionale) nel libro l'incontro amoroso è fisico, descritto in modo crudo, ed è una specie di duello dal quale la androide esce vincitrice.
     J.R. Isidore è l'ingenuo deficiente che ospita gli androidi, bisognoso in modo quasi infantile di dare e ricevere affetto. La sua menomazione mentale viene trasposta, da Scott, sul piano fisico: ecco allora che il corrispondente filmico J.F. Sebastian, pur restando remissivo ed essendo l'unico uomo a ospitare i replicanti, è malato non più nella mente ma nel fisico (la sindrome di Matusalemme).
     Non c'è luce, dunque, nel libro di Dick, non c'è riscatto: Roy resta malvagio fino alla fine e Deckard non si inoltra in valli rigogliose ma nel deserto radioattivo dell'Oregon. Rachael è malvagia come tutti gli androidi e gli ha persino ucciso la pecora. Anche se Deckard cerca amore nei replicanti che è costretto a uccidere lo troverà alla fine solo nella moglie, che prima lo respingeva. Alla fine di quell'unica lunghissima notte Rick troverà un suo modus vivendi. Un altro giorno inizia, l'ennesimo su questa Terra agonizzante.
     Il libro merita di essere letto, anche alla luce delle riflessioni che seguono, incentrate sui significati e sui molteplici livelli di lettura del film. Film e libro sono infatti due creazioni autonome e indipendenti, e in fondo un semplice confronto non aiuta molto a capire.

     Per il film è stata suggerita la lettura di una serie di metafore a dir poco affascinanti, e sono stati sottolineati dei mutamenti chiave nel passaggio dalla pagina alla pellicola.
     Bisogna fare il test Voigt-Kampff a Blade Runner stesso per scoprire cosa è "originale" e cosa è "replicante". Nel confronto tra libro e film e tra il film e gli altri modelli si fanno delle scoperte incredibili. Inutile sottolineare, se non siamo digiuni di cinema, quanto Ridley Scott abbia preso da Metropolis di Fritz Lang (1926) e da Antonioni, Welles e Godard; questi sono "innesti" sul libro, che pure era già molto affascinante e pieno di segreti da scoprire. Ad esempio il protagonista, Rick Deckard, che nel libro ha un alter ego a lui identico di nome Phil, è immagine dello stesso Philip K. Dick (con assonanze insistite, un anagramma criptato: Phil + Rick Deckard / Philip K. Dick).
     Nel passaggio al film Ridley Scott ha operato una serie di sostituzioni, di nomi e di luoghi, assolutamente non casuali.
     San Francisco è diventata Los Angeles: il motivo? La città degli angeli, gli Angeli caduti, cioè i demoni, i replicanti "discepoli" del Messia Anticristo Roy Batty, "caduti" dalle colonie sulla terra, cioè dall'Eden alla dannazione. A questo proposito il film, ben più del libro, è addirittura impregnato di riferimenti metaforici alla religione. Zhora interpreta Salomè e il serpente, altro riferimento al Peccato Originale e alla Caduta (contaminato con un personaggio neotestamentario), con la "proibizione" (cfr. il bando dei replicanti dalla Terra); Zhora rovescia il rapporto e sottomette il serpente che dannò l'umanità, e lo fa in veste di Salomè: una glorificazione del peccato, l'esaltazione della ribellione, la vendetta della Creatura (vedi più avanti).
     Poi la blasfema ascensione al tempio e l'incontro tra il "Padre" Tyrell e il "Figliol Prodigo" non pentito Roy Batty: il palazzo è piramidale, la camera di Tyrell è una specie di chiesa, piena di candele, citate dallo stesso scienziato nella metafora. Roy, dopo un bacio (cosa ricorda?) uccide il Padre, cioè il Creatore, si ribella e uccide forse il concetto stesso di realtà: TYRELL sarebbe un anagramma occultato, volutamente imperfetto, di REALITY (l'originale era un più prosaico Rosen). Uccisa la Realtà, non è più possibile, quindi, scoprire cosa è umano e cosa è replicante, la realtà non c'è, è sfumata per sempre, come la fiducia nel Creatore, quel Dio/Tyrell che aveva creato i figli a sua somiglianza.

     Lo stesso Roy muore denudato, con la mano trafitta da un chiodo (cosa ricorda?). Muore pronunziando parole che, continuando questo gioco delle metafore, rimandano alle ultime parole di Cristo sulla croce. D'altra parte, quando Roy parla non lo ascoltano forse tutti come un Messia? "…ho visto cose che voi umani…"; egli è l'annunciatore messianico di realtà sconosciute e "celesti", ma non parla per condividerle con gli uomini, ormai non parla più per conto del Padre: sono parole disperate, le sue, benché colme di grande dignità. Poiché l'ha ucciso non c'è più un "Padre" cui rimettere lo spirito…lo Spirito… L'immagine dello Spirito Santo cristiano non è forse la colomba bianca? Roy libera una colomba, il suo spirito/Spirito esalato che sale al cielo in forma di colomba, che in questo modo preannunzia anche la fine del Diluvio Universale (infatti per tutto il film non smette mai di piovere). È la fine di un ordine di cose, la fine del Peccato dei replicanti. La purificazione è finita, l'Anti-Messia Roy Batty è morto e tutto il film si scopre un Vangelo Ateo, la ribellione del Figlio al Padre, la furia umana per la limitatezza della vita (4 anni o 80 non cambia la sostanza, non siamo immortali). Da immagine rovesciata di Cristo, Roy può essere visto come il Figliol Prodigo Satana, l'angelo più potente, la Creatura migliore, che però ha rinnegato il Creatore.
     Roy parte da immagine luciferina che cade dal cielo dell'extra-mondo alle fiamme infernali della Terra dannata, una Los Angeles fatta di fiamme (cfr. l'inizio del film) e pioggia da Diluvio Universale, per poi diventare un Messia, come si è visto, con venature di titanismo pagano/germanico alla Wagner (cfr. la citazione delle "porte di Tannhäuser") e morire col chiodo nella mano, seminudo e sotto la scritta al neon TDK, equivalente blasfemo della sigla INRI: se INRI era Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum forse il logo pubblicitario TDK è anche The Dark Killer? Il Messia-Figlio Assassino del Padre? Dio-non-più-dio ma ormai solo uomo, Suprema Creatura simbolo di tutti gli uomini che hanno "ucciso Dio", disperati perché senza risposte? Ma poiché Dio non può uccidere sé stesso nella persona del Figlio…l'Anti-Messia è appunto l'Anticristo Satana, il ribelle.
     Ma i rimandi biblici non finiscono qui: molti nomi sono ebraici (Sebastiano, Rachele) e la nipponizzazione del mondo futuro —che tanta fortuna ha poi avuto in seguito nell'immaginario cyberpunk, ossessionando ad esempio un William Gibson— forse è la rivisitazione capitalistica di fine millennio di Sodoma e Gomorra, della blasfema Babilonia, della Torre di Babele, del Tempio profanato dai mercanti e dai peccatori.

     C'è un'altra chiave di lettura, tuttavia, che mi pare autonoma e al tempo stesso sovrapponibile alla prima; è la metafora del cinema. Blade Runner sarebbe un esempio del cosiddetto "metacinema", il cinema che parla di sé.
     La seconda immagine del film è un occhio che riflette le fiamme controcampo. Uno dei temi proposti dal film sarebbe quello del simulacro (cfr. I simulacri di Dick), dell'androide in senso etimologico, cioè "simile a uomo". Questo concetto è insistito fino all'esasperazione: l'origami umano di Gaff, gli scacchi antropomorfi di Tyrell, i manichini del negozio d'abbigliamento in cui muore Zhora, le bambole e i pupazzi-replicanti di Sebastian, la Barbie tagliata a metà con cui gioca Pris, prefigurazione della sua morte, quando tenterà di mimetizzarsi tra gli automi/giocattoli fingendosi una bambola. Scott gioca con il simulacro umano, gioca a scomporlo e ricomporlo conducendoci in un labirinto di "segni" tra i quali non è facile orientarsi e che a uno spettatore disattento sfuggono (e magari il suddetto sbadiglia, si annoia perché mancano le esplosioni e gli inseguimenti da action movie).

     L'occhio: l'occhio dell'inizio, l'occhio del gufo artificiale, gli occhi di cui si occupa Chou, quelli con cui gioca Roy a casa di Sebastian, quelli analizzati nel test Voigt-Kampff… l'occhio è qui metafora del cinema. Il Simulacro, la visione in senso generale non è più prova di verità, perché ciò che vediamo può essere falso: le foto, i ricordi, i sogni… è tutto un film. Ma si è chiamati a una "reazione". Molti sono gli elementi che suggeriscono questa interpretazione.
     Già il test Voigt-Kampff con cui si apre di fatto il film è una metafora del cinema: "Sei in un deserto, stai camminando sulla sabbia e all'improvviso…" "Questo è già il test?"
     Questo è già il film? Umano e replicante sono indistinguibili, come attore e personaggio. L'immagine, la visione, è suggerita dalla magia della parola (il test) o direttamente dal cinema; il risultato è una reazione emotiva (la nostra, al film, e anche al gioco interattivo, ora che esiste anch'esso, così vero, così coinvolgente): il test si basa sul presupposto che, al di là dell'identità del simulacro umano e replicante, indistinguibili, ci sia da parte dell'uomo una "empatia" assente negli androidi, anche negli evoluti Nexus-6. La parola crea l'immagine (anche solo nella nostra, appunto, "immaginazione") ed essa provoca una reazione emotiva. Ecco perché il Voigt-Kampff è metafora di quel "test" che è il cinema, un momento in cui siamo chiamati a reagire alle immagini (forniteci direttamente e non attraverso la parola) con i sentimenti che sorgono spontanei e col nostro sforzo di decodifica di ciò che vediamo; questo è il gioco che il cinema propone ai nostri occhi, come agli occhi di chi si sottopone al Voigt-Kampff.

     Lo spettatore è il replicante, condannato alla reazione: non a caso all'inizio del film il replicante-spettatore Leon chiede al blade runner-regista Holden "Questo è già il test?" cioè siamo già nel film? e poi "Inventa lei le domande [= le storie] oppure gliele scrivono?" e l'altro risponde: "Sono solo domande. C'è chi le scrive per me. È un test concepito per provocare una reazione emotiva". Insomma è un film fatto per farvi battere il cuore, scaricare la tensione, e poi anche pensare. La catarsi del teatro greco vive ancora nel nostro mondo di celluloide e cibernetica.
     Rachael, prodotto dello showbiz, potrà dire "Io non sono nel business, io sono il business". E, sempre volutamente, nello studio assolato di Tyrell (citazione di Metropolis) bisogna far calare il sipario prima che inizi il test (il film): Deckard chiede che si abbassino le luci "Troppa luce qui". I film non si vedono forse al buio? E sul trespolo c'è proprio una creatura notturna con occhio da otturatore di cinepresa, un indizio fin troppo esplicito che quest'interpretazione è voluta da Scott.
     "È artificiale?" "Naturalmente" "Sarà costato" "Sì, molto".
     Ed è il cinema stesso.

     Tutto ciò non è certo casuale. Già nel libro di Dick c'erano tracce di metaletteratura: "I grandi produttori di androidi [= di romanzi e film] sono personalità bizzarre".
     Il replicante-spettatore Roy nel film dice a Chou, uno dei suoi artefici: "Se solo potessi vedere cosa ho visto con questi tuoi occhi…". È lo spettatore che si rivolge al regista (o romanziere), dall'altra parte del grande occhio.
     La San Francisco del libro è diventata Los Angeles per via degli "angeli caduti", ma anche Seattle, dove nel libro aveva sede la Rosen Association, è diventata Los Angeles, perché il Creatore Tyrell, regista delle vite e delle storie, dei sogni e dei ricordi, non può che stare lì, dove c'è Hollywood, la grande fabbrica/Genesi della fiction, dove il comando "ciak, si gira" del regista è immagine del Verbo che presiedette la Creazione col "fiat lux".

     Non è finita. Oltre a queste "letture" ci sono altre meraviglie da scoprire.
     Cosa ha aggiunto Scott nel passaggio al film, cosa ha cambiato e perché?
     Il titolo: Blade Runner. Il termine tecnico di blade runner come unità speciale dei cacciatori di replicanti è assente nel libro di Dick. Di più: anche il celebre termine di "replicante" (passato nel linguaggio comune) è invenzione di Ridley Scott. Dick parlava di "androidi" Nexus-6 e di "cacciatori a premio assoldati dalla polizia" (bounty killers).
     Da dove salta fuori il titolo Blade Runner? Forse perché Gli androidi sognano pecore elettriche? è troppo lungo, interrogativo e sonnolento (le pecore vanno bene per gli intervalli e per addormentarsi — e se c'è una cosa omessa nel film è proprio la pecora di Deckard). Come tradurre Blade Runner, un epiteto tanto suggestivo quanto oscuro: il "corridore della lama"? Che senso ha?
     Non tutti sanno che Blade Runner è il titolo di un libro (ecco gli innesti…) di Alan E. Nourse e poi, attraverso un gioco di citazioni e riscritture, di un altro ancora, omonimo, di William Burroughs (da non confondere con Edgar R. Burroughs) quest'ultimo pubblicato nel 1979, quindi poco prima del film di Scott, e ambientato nel 2014, quando un tremendo virus diffonde un'epidemia di cancro-lampo; la storia ha per filo conduttore i medici, che vietano questo virus perché scoprono che decuplica le possibilità sessuali degli individui, anche se li uccide in poco tempo; il clima da umanità agonizzante è molto simile a quello del libro di Philip K. Dick.
     Ebbene, Burroughs è uno dei grandi della beat generation, padre della "postmodernità" e profeta della scrittura come "riscrittura" e "saccheggio autoriale". Egli ha copiato Nourse e Ridley Scott ha copiato lui: il titolo Blade Runner è la copia di una copia, che si reincarna ogni volta in opere molto diverse tra loro, senza rapporto alcuno. Replicante e originale si confondono.
     Perché Scott ha "rubato" e ha rubato proprio a Burroughs? Lo scrittore ha teorizzato l'annullamento dell'autore, la liceità del saccheggio letterario e del plagio (come nella letteratura antica), la morte del copyright, insomma il "saccheggio della biblioteca di Babele". Esistono descrizioni stupende in autori come Conrad: perché non prenderle e usarle come sfondo per i nostri romanzi? Intreccio di Tizio, descrizioni e sfondi di Conrad…
     Il "Creatore" (di romanzi, di film) è morto, non esiste più: originale e replicante si confondono… "L'intera gamma della pittura, scrittura, musica, film è lì perché voi la usiate —dice Burroughs in un suo saggio— […] E allora usciamo allo scoperto e rubiamo tranquillamente".
     L'operazione di Ridley Scott non è il semplice "innesto" di un titolo emblematico su una storia del tutto diversa ma il simbolo di un programma ben preciso, la piena realizzazione dell'ideale di Burroughs: in una parola, il Blade Runner di Ridley Scott è il "saccheggio" del cosiddetto immaginario collettivo (cinematografico e letterario) del Novecento, un grande furto di tutto il meglio che diviene all'improvviso, innesto dopo innesto, opera nuova; ma opera "replicante", fatta di memorie artefatte, citazioni, sogni, immagini, suggestioni.
     Sul romanzo di Philip K. Dick, relegato al ruolo di "soggetto" cinematografico, Scott ha innestato di tutto: i fasci di luce di Orson Welles, i numerosi rimandi a Metropolis di Fritz Lang (la città futuristica, gli androidi, lo studio assolato, il cast retrò) e all'omonimo romanzo di sua moglie Thea von Harbou del 1912, l'iniziazione amorosa di Rachael da Godard (Alphaville), l'ESPER per la lettura digitale delle foto come citazione di Antonioni (Blow up), un Deckard che ricorda poco quello di Dick e che è piuttosto la reincarnazione postmoderna di Humphrey Bogart e il compendio di tutto il cinema noir americano. E così via.
     Scott ha rubato senza timore: egli è il vero erede di Burroughs e infatti proprio a lui ha rubato il titolo Blade Runner, un titolo ormai di terza mano; in questo caso più che mai il furto è una citazione e un omaggio.
     Che poi il film (montaggio tradizionale) si concluda su immagini girate per The Shining di Kubrick conferma il clima di saccheggio citazionista e di innesto: se è vero che il film, questo film pieno di innesti, è il replicante e il suo problema è durare troppo poco (due ore di proiezione, poi la morte) allora la sua unica sopravvivenza può essere un ennesimo innesto, da un altro film, un altro sporco "lavoro in pell…icola": lì il replicante (filmico) trova la sua immortalità, senza che ci sia alcun nesso tra le due storie.
     Quando Scott, però, presenta il Director's cut come vero originale di quel replicante non fa che confermare questa visione: non esiste davvero un originale Blade Runner che sostituisca il replicante. Sempre sostituibile, sempre perfezionabile, Blade Runner continua a essere ciò di cui parla, cioè un "simulacro" (Cfr. Dick), un'immagine, più umano dell'umano, più finzionale della fiction. Sempre opera "aperta" ed immortale perché tutto l'immaginario del Novecento si nasconde nei suoi innesti e permette all'occhio della metafora di continuare a guardare.

     Dick e Scott hanno dato tanto alla fantascienza di oggi. Gibson e Sterling (e tutto il cyberpunk) sono loro debitori. I concetti di cyborg, di interfaccia tra uomo e macchina, di "mutazione" molecolare dell'essere umano e di ridefinizione dell'idea stessa di "umanità" sono già tutti in Dick. Nella fantascienza contemporanea è impossibile scoprire cosa è vero e cosa è falso, cosa è umano e cosa è replicante (forse ormai i due ordini naturali si equivalgono e sono perfettamente commutabili o si superano per ottenere qualcosa di nuovo e intermedio. Tesi, antitesti e sintesi…Hegel è ancora tra di noi).
     Queste tematiche sono già in Ubik (1969) il capolavoro di Dick e soprattutto in Un oscuro scrutare del 1977, dove sembra rivivere la famosa metafora dello specchio di San Paolo (I lettera ai Corinzi, 13, 11-12) citata non a caso nel lungometraggio d'animazione giapponese Ghost in the Shell, prima quando la protagonista androide Motoko Kusanagi si immerge in acqua, e poi completata alla fine del film da lei stessa, fusasi con "il Signore dei Pupazzi" dando vita a una nuova entità. Anche in Ghost in the Shell c'è il tema dei confini ormai sfumati del concetto di umanità: Motoko si chiede quale sia l'importanza di essere totalmente organici (= umani) se anche un androide è in grado di generare il suo spirito prendendo coscienza di sé.

     Oggi, nel 1998, dopo Dick (romanzo) e Scott (film)…tocca alla Westwood Studios: il gioco. O meglio, più appropriatamente, l'avventura interattiva.
     I titoli, una presentazione, una voce narrante, la pioggia, la luce. Il puntatore del mouse, il nostro "occhio" sul mondo interattivo. Ora tocca a noi.
     "Questo è già il gioco?"
     "La scrive lei la trama o…è nelle nostre mani?". Il replicante/spettatore e il blade runner/regista si confondono stavolta in noi, non sono più scindibili. È a noi stessi che dobbiamo fare il test Voigt-Kampff, è a noi stessi che dobbiamo chiedere:
     "Sei davanti a un uomo, che forse è un replicante. Vedi che ha paura, sai che non è malvagio e che forse è uguale a te…ma lo uccidi. Perché?"


     Apparso sul "Silverdisk" di "The Games Machine", febbraio 1999







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